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Mini blog

Immagini e riflessioni

Questa pagina è come un cantiere in cui la psiche lavora con immagini e riflessioni.
Raccolgo in questo spazio alcuni pensieri che potrebbero essere di spunto per associazioni e riflessioni.

Parliamo Queer! Queer

 

La parola Queer è la stella indiscussa di questa rubrica. Vorrei trasmettere l’importanza che ha per me questa parola soprattutto per il suo significato di rivendicazione.

Innanzitutto, per chi non la conoscesse, si tratta di un termine ombrello che copre moltissime identità sessuali atipiche e viene usato per indicare persone che fanno parte della comunità LGBTQIA+.  Il termine Queer e la sigla LGBTQIA+ sono spesso usati in modo interscambiabile anche se non sono effettivamente diciture sovrapponibili. Potremmo, quindi, fare molte considerazioni ma vorrei concentrarmi più che altro su un aspetto per me essenziale: la parola Queer è stata oggetto di riappropriazione e di trasformazione della sofferenza in motivo di orgoglio e ha dato vita a un processo psicologico di affermazione dell’Io di identità che prima erano disconosciute.

In origine, infatti, era un termine dispregiativo usato nel mondo anglosassone per indicare persone omosessuali o “non conformi” e la traduzione letterale è “eccentrico”, “bizzarro”, “strano”. In Italia si è verificato un fenomeno simile con termini come, ad esempio, la parola frocio: uno degli epiteti che venivano rivolti soprattutto agli omosessuali maschi e di cui ora la comunità Queer si è riappropriata. Impattante e catartico come i suoi membri con fierezza si autoproclamano froci3… Hai mai notato che il 3, segno per indicare il plurale inclusivo abbinato alla parola froci-3 sembra ancora di più a forma di cuore? Quale migliore risposta agli insulti se non rafforzare il nostro senso di identità e di amore verso noi stess3! Mi viene in mente che la scorsa settimana a Roma è stato imbrattato il muro del circolo Mario Mieli con la scritta “froci “e sui social più persone hanno commentato che bastava aggiungere grafemi inclusivi per trasformare l’insulto e per rivendicare che sono fier3 di essere froci3.

Umanamente e da psicologa non intendo sottovalutare la sofferenza e i danni che provocano gli insulti: ci sono delle parole che possono gravemente ferire e sono delle vere e proprie violenze. Le persone queer sono purtroppo esposte a questo e altri tipi di violenza e per questo è importante chiedere aiuto e creare una rete di supporto e protezione. Tuttavia, quando le persone riescono ad affrontare e trasformare i loro traumi può capitare che questi addirittura diventino un valore aggiunto alla loro vita e al loro senso di identità.

Nel mondo della psicoterapia e della traumatologia viene molto apprezzata la metafora del Kintsugi, pratica giapponese molto interessante. Essa consiste nel riparare i vasi rotti riunendo i cocci con un collante misto a metalli preziosi cosicché le crepe risulteranno dorate. Il vaso così sarà aggiustato e impreziosito con un valore aggiunto rispetto alla condizione precedente la rottura. Immagino il nostro vaso Queer coloratissimo di arcobaleno e oro.

Riappropriarsi di termini dispregiativi come Frociə o Queer, andare al Pride, baciarsi e tenersi per mano tra persone dello stesso sesso esattamente come fanno le coppie etero, semplicemente esistere senza nascondersi è come riparare i cocci dei vasi del trauma. Avere il coraggio di esprimere il proprio modo di essere, la propria identità di genere, l’affetto e amore per una o più persone che possono non rientrare nello schema coppia uomo/donna o con il tramite di legami biologici è un atto di resilienza.

La parola Queer è una delle tante parole straniere che è entrata a far parte della nostra lingua e non credo sia un caso che abbia avuto più successo della “cugina” italiana Frociə. Anche se conosciamo il significato di un termine straniero (e magari è più cool o figo), a livello emotivo si crea una distanza maggiormente gestibile rispetto al bruciare che può provocare il contatto diretto con una parola appartenente alla nostra lingua madre. Penso che sia importante tenere presente tale aspetto emotivo perché per noi la parola Queer potrebbe suonare semplicemente come una parola leggera e colorata. Rischiamo di dimenticare che invece deriva da un meccanismo che tanto frivolo non è. Al contrario ha una storia di traumi, di resistenza e resilienza, di trasformazione e di rivendicazione, è un simbolo di orgoglio delle minoranze oppresse.

Parliamo Queer! Omosessualità

Parliamo Queer! Omosessualità

 

 

Tutt3 più o meno sanno cosa vuol dire omosessuale e potrebbe sembrare banale concentrarsi su una parola così conosciuta e così semplice. Eppure, vale la pena soffermarsi per guardare cosa può esserci sotto una parola che diamo per scontata. La usiamo per indicare le persone che si sentono attratte da persone dello stesso sesso.

Il termine omosessuale è abbastanza recente anche se indica un fenomeno senza tempo che accomuna non solo l’intera umanità ma anche il regno animale. Ha il limite della visione del tempo in cui si dava per scontato il binarismo di genere, quindi il punto di osservazione parte dal sesso della persona che prova attrazione che può essere per lo stesso sesso o per il sesso opposto (eterosessuale) o per entrambi (bisessuale) etc.

Trovo che sia molto interessante andare a cercare l’origine e l’etimologia delle parole e confrontarle con le altre lingue per capire come nasce e si evolve un termine. Anche se non ho fatto greco a scuola e in latino ero una frana mi è rimasta la curiosità per l’evoluzione delle lingue che si susseguono e hanno parentele come membri di una famiglia in un albero genealogico. L’ambiente culturale e sociale in cui cresce una parola è interconnesso con il linguaggio ed è per questo che oggi ci sono molte più parole nel vocabolario “Queer”.

Da un punto di vista psicologico e umano reputo la parola omosessuale parziale e addirittura fuorviante ad essere onesta; tuttavia, è un termine che ci aiuta a comunicare. Forse un giorno le parole avranno altre trasformazioni che andranno di pari passo con le evoluzioni del pensiero in tutte le discipline scientifiche e umanistiche. Tornando alla metafora delle parole come figure che compongono un albero genealogico, mi viene da immaginare la parola omosessuale come a una persona anziana, un’antenata come una bisnonna ultracentenaria, una matriarca ancora in vita. Si tratta infatti di una parola importantissima che vive ancora ed è un riferimento che ha influenzato il passato, il presente e influenzerà il futuro. Figlia della sua epoca si esprime seguendo le regole del suo contesto.

Tornando alle sue origini, si tratta di un termine tradotto dal tedesco Homosexualität (parola composta che deriva dal greco omoios “simile” e il latino sexus “sesso”) è stato creato nel 1869 dal letterato Karl-Maria Kertbeny che, in forma anonima, aveva scritto una critica contro il governo prussiano che puniva gli atti sessuali tra persone di sesso maschile. Kertbeny coniò questo vocabolo per sostituire altri termini dispregiativi che si usavano all’epoca. Altri tentativi sono stati fatti ma la parola omosessuale è quella che ha avuto più successo e che è in uso ancora nell’epoca contemporanea in tantissime lingue.

La parola omosessuale, infine, pone l’accento sull’aspetto sessuale trascurando gli aspetti affettivi, romantici, identitari e tutto ciò che ruota attorno al concetto di legame tra persone. Quando diciamo “omosessuale” nominiamo la parte sessuale che è presente nella parola composta e mettiamo in secondo piano altri aspetti importanti appartenenti alle sfere del desiderio, dell’identità e della sfera emotiva e affettiva delle persone. Inoltre, dare maggior risalto al “-sessuale” può essere critico perché implica la parola sesso che può essere basilarmente fonte di imbarazzo.

Oggi abbiamo diversi termini per descrivere aspetti delle identità e della sessualità. Alcune persone trovano importante avere delle parole che le rappresentino, altre persone rifuggono le definizioni perché possono essere strette o incasellanti, per alcun3 è importante riappropriarsi di termini che vengono usati in modo dispregiativo o ridicolizzante come simbolo di rivendicazione e trasformazione della violenza in orgoglio. Per molte persone Queer sono fondamentali i concetti di fluidità e di sfumature che possono meglio narrare le nostre identità e validarle.

In conclusione, la parola omosessuale ha una grande importanza ma potrebbe non essere adatta per descrivere molte soggettività e nei prossimi articoli proverò a dipingere altre sfumature e termini del mondo Queer.

Parliamo Queer!

Parliamo Queer!

 

 

Parliamo Queer è la rubrica mensile in cui approfondirò vocaboli, modi di dire, termini, simboli e linguaggio inclusivo. Il viaggio che faremo sarà simile a quello che si fa quando si impara una nuova lingua o un nuovo dialetto, quindi dobbiamo attrezzarci di curiosità, pazienza e metterci in atteggiamento di apertura verso il nuovo.
Non tutte le persone saranno allo stesso punto del percorso, per alcune i termini saranno già conosciuti e forse superati e per altre ci saranno parole nuove da poter inserire in valigia. Il linguaggio è in continua trasformazione e a volte può sembrare inafferrabile. Forse il viaggio di conoscenza è come il viaggio della vita: a volte lavoriamo sodo per raggiungere un obiettivo e una volta raggiunto vediamo il panorama da un’altra prospettiva e possono fare capolino nuovi obiettivi. Nella vita non si finisce mai di trasformarsi e anche se siamo in una situazione di stasi apparente, le nostre cellule vivono, lavorano e si trasformano.
Le lingue vive, cellule del grande organismo umanità, sono in continua trasformazione e la “lingua Queer” non fa certo eccezione. Negli anni l’attivismo politico LGBTQIA+ ha lavorato duramente per trovare migliori immagini, definizioni, grafemi, fonemi e parole che possano rappresentare tutte le persone. Il lavoro continua e ci saranno sicuramente delle evoluzioni in tutte le lingue del mondo e in questo momento storico possiamo assistere alla nascita di nuove parole. Vedere qualcosa nascere è emozionante ma può anche disorientare e per questo ho avuto bisogno di soffermarmi e di far nascere questa rubrica, per provare, di volta in volta, a fare il punto della situazione e accrescere la consapevolezza.
Molte lingue hanno una bandiera e anche la “lingua Queer” ha quella arcobaleno che si è evoluta nel tempo e ha molti colori e significati. Ecco qui una delle ultime versioni anche riprodotta nell’immagine di copertina della rubrica:

Fonte: Intersex-Inclusive-Pride-Flag.png (600×381) (wp.com)

Nella parte destra si vede la bandiera arcobaleno, nata e trasformata negli anni ’70 del secolo scorso, che è diventata simbolo universale per la comunità gay. Secondo alcun3 l’ispirazione alla sua creazione deriva dalla canzone “Over the Rainbow” della colonna sonora del film “Il mago di Oz” e i colori simboleggiano la vita, la sessualità, la pace, la magia, il sole, lo spirito, la natura, la guarigione…
Nella parte sinistra i colori nero e marrone sono stati aggiunti recentemente per aggiungere il valore dell’inclusività per le persone di colore e il bianco, il rosa e l’azzurro rappresentano l’orgoglio transgender. La parte gialla con il cerchio viola rappresenta le persone intersessuali.
Questa è una delle versioni più utilizzata di recente ed è facilmente riconoscibile a livello internazionale, però non è facile includere tutte le identità e quindi ci sono anche altre bandiere che danno maggiore visibilità ad ulteriori aspetti dell’identità.
Esistono, infatti, altre bandiere per l’orgoglio bisessuale, quello lesbico, asessuale, non binary, agender, per il poliamore e altre identità che potremo scoprire in altri approfondimenti. Chiaramente l’intento è di includere ogni persona, farla sentire vista, rappresentata e capita, darle la sicurezza che si può esprimere, esistere ed essere spontaneamente come è senza doversi conformare ad aspettative prestabilite da un sistema imposto.
Credo che esporre la bandiera arcobaleno e altre bandiere identitarie sia migliorare il mondo perché aiuta a fare sentire al sicuro le persone. Spesso mi sono ritrovata a fare un sospiro di sollievo a vedere un arcobaleno appeso in un bar o -purtroppo ancora troppo raramente!!- a intravedere una spilla Rainbow sul camice di una persona medica. In contesti come questi le persone queer sanno che possono rilassarsi e che la situazione può essere accogliente e per questo spesso si parla di ambienti “safe”.
La bandiera arcobaleno colora gli spazi e li tinge di sicurezza, così anche il linguaggio inclusivo crea suoni, dialoghi, mondi safe e accettazione.
Iniziamo il viaggio facciamo una bella chiacchierata e naturalmente parliamo Queer!

 

E-speranza

E-speranza

Abbiamo bisogno di speranza e di vedere un arcobaleno. Avevo già parlato a gennaio del simbolo “gettonato” dell’arcobaleno che è stato scelto come bandiera per il movimento LGBTQ e per i movimenti pacifisti per citare solo i più conosciuti. Storicamente è stato anche usato come simbolo del ponte tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno. È un arco, un ponte colorato ed effimero che non possiamo toccare ma vediamo e di cui non metteremmo mai in dubbio la sua esistenza, come il fatto che sia collegato immaginativamente alla speranza che torni il sole dopo una tempesta.
Adesso, in piena emergenza Covid, stiamo assistendo a un apparire di arcobaleni disegnati da bambini con la scritta “andrà tutto bene”. Molte volte i cartelloni preparati dai bambini sono grandi più dei loro creatori e si può immaginare il grande tempo necessario alla preparazione. Hanno dovuto aspettare e sperare di fare un buon lavoro, disegnare un bel arcobaleno e colorarlo con precisione. Ci vuole tempo, ci vuole speranza e può costare fatica. In alcune lingue di origine latina aspettare e sperare sono un unico verbo: esperar. Coltivare la speranza e aspettare non farà certamente miracoli. La stessa speranza, però, può essere il ponte che attraversiamo a tentoni con lentezza e fiducia mentre aspettiamo, speriamo e attraversiamo l’evolvere della crisi. Tanti colori possono rappresentare tante emozioni, che in questi giorni sono più intensi. Nell’immagine dell’arcobaleno più colori, più emozioni, convivono assieme per creare il nostro ponte di speranza che ci può portare a un dopo, a un oltre…
La stessa barca

La stessa barca

In questi giorni trovo che sia molto importante curare le relazioni e creare degli spazi di condivisione per affrontare questo momento molto difficile per tutti. Se fino a due settimane fa la tecnologia aveva più rischio di farci estraniare, ora invece viene usata con maggiore consapevolezza per lavorare, fare riunioni, fare videochiamate con parenti che non si possono incontrare, fare aperitivi su Skype con gli amici o lezioni di yoga online.
Ho passato dei giorni in cui ho lavorato molto e ho potuto fare intervisioni con i colleghi e quello che ho sentito è che i gruppi, la comunità e le famiglie possono continuare a lavorare e a condividere in modi diversi ma sicuramente creativi. Negli incontri virtuali che ho avuto, spesso mi affiorava in mente uno dei fattori terapeutici più forti che vengono attivati nei gruppi, che Yalom aveva chiamato “Siamo tutti sulla stessa barca”. Ossia ci troviamo a condividere le stesse paure, le stesse rabbie, le stesse speranze e sentiamo di essere parte della stessa comunità umana. Purtroppo ci sono molte persone che stanno soffrendo tantissimo e spero che tutti ci impegneremo ad agire con saggezza e ad attivare la protezione verso l’altro. Gli alberi stanno continuando ad abbracciarsi, loro possono. Se sentiamo di essere parte di un tutto e che questo tutto va curato, curiamo anche noi stessi e prima potremo tornare ad abbracciarci come gli alberi della foto.
Una buona zuppa

Una buona zuppa

In questi giorni trovo che sia molto importante curare le relazioni e creare degli spazi di condivisione per affrontare questo momento molto difficile per tutti. Se fino a due settimane fa la tecnologia aveva più rischio di farci estraniare, ora invece viene usata con maggiore consapevolezza per lavorare, fare riunioni, fare videochiamate con parenti che non si possono incontrare, fare aperitivi su Skype con gli amici o lezioni di yoga online.
Ho passato dei giorni in cui ho lavorato molto e ho potuto fare intervisioni con i colleghi e quello che ho sentito è che i gruppi, la comunità e le famiglie possono continuare a lavorare e a condividere in modi diversi ma sicuramente creativi. Negli incontri virtuali che ho avuto, spesso mi affiorava in mente uno dei fattori terapeutici più forti che vengono attivati nei gruppi, che Yalom aveva chiamato “Siamo tutti sulla stessa barca”. Ossia ci troviamo a condividere le stesse paure, le stesse rabbie, le stesse speranze e sentiamo di essere parte della stessa comunità umana. Purtroppo ci sono molte persone che stanno soffrendo tantissimo e spero che tutti ci impegneremo ad agire con saggezza e ad attivare la protezione verso l’altro. Gli alberi stanno continuando ad abbracciarsi, loro possono. Se sentiamo di essere parte di un tutto e che questo tutto va curato, curiamo anche noi stessi e prima potremo tornare ad abbracciarci come gli alberi della foto.

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